di Giuseppe “Beppe” Massellucci
… proprio lui!
Fin da ragazzo sono sempre stato un utilizzatore delle due ruote, per andare al mare, poi in ufficio, ecc. ma ad un certo momento, nemmeno ricordo bene quando e perché, sono rimasto affascinato dal mondo delle Biciclette d’Epoca.
Preciso, le Biciclette d’epoca Italiane, quelle con i freni a bacchetta e il telaio in acciaio, pesanti e robustissime – e tali avevano da essere perché dovevano servire per recarsi in fabbrica la mattina e andare a ballare la domenica, spesso trasportando la fidanzata nella canna – negli anni 10, 20 e 30 sono state le migliori al mondo, con buona pace delle Raleigh inglesi o delle Peugeot francesi o delle Durkopp tedesche.
Erano le indistruttibili Edoardo Bianchi e le perfette Umberto Dei di Milano, le leggere Maino di Alessandria, le avveniristiche Taurus, e poi le Legnano, le Atala, e tanti altri grandi e piccoli marchi che sfornavano centinaia di migliaia di velocipedi ogni anno.
Ognuno di questi Marchi meriterebbe molte pagine per descrivere la gara alla perfezione meccanica che all’epoca si era scatenata nella costruzione di telai e freni.
Anche il mercato delle componenti era grandissimo, basti pensare alla Pirelli che ne costruiva i pneumatici e le camere d’aria, o alla Magneti Marelli per le dinamo e i fanali, così ben progettati e costruiti con materiali di così alta qualità che anche oggi, nel 2020, il pedalare una Bianchi del 1936 o una Maino del 1927, e vedere che dinamo e fanale funziona alla perfezione, per non parlare dello scorrere delle ruote, è senza dubbio un’esperienza piacevolissima.
Se oggi saliamo in sella ad una Umberto Dei degli anni 20/30, non riusciamo a spiegarci come lo speciale grasso nei mozzi delle ruote, anche dopo novanta/cento anni, sia tutt’ora meravigliosamente lubrificante.
E non si buttava via niente perché tutto si poteva riparare, aggiustare, bastava una chiave inglese e un cacciavite, in dotazione nella borsetta sottosella, per non rimanere mai a piedi.
Il contrario di oggi, dove l’economia crolla se smettiamo di consumare anche solo per un mese.
Interessantissime poi sono le biciclette dei cosiddetti “mestieri”, da quella del medico (con i borsoni per le medicine) a quella dell’arrotino, che con un ingegnoso sistema di leve e catenelle muoveva la pietra e faceva scendere il filo d’acqua necessario.
C’erano poi le bici per i soldati, ad esempio quelle dei Bersaglieri, ripiegabili proprio come le Grazielle degli anni sessanta, con le cinghie per fissarle allo zaino.
E si producevano anche per i preti, cosiddette “bici da ecclesiastico”, con il telaio da donna ma le ruote da uomo, da 28 pollici, altrimenti la sottana gli si sarebbe impigliata nella canna, proprio come in quella famosa scena di Peppone e don Camillo, dove Gino Cervi e Fernandel sbuffavano sui pedali.
Quelle da corsa, poi, erano il vanto della produzione italiana, e con il leggendario cambio Campagnolo trionfavano in tutto il mondo.
Molte le leggende sulle biciclette di quegli anni, come quella sull’amicizia tra Sante Pollastri (il feroce bandito) e Costante Girardengo, come canta De Gregori nella sua ballata “il Bandito e il Campione”.
Molte anche le storie vere, delle tante ragazze come Dina Croce, o Tina Anselmi, che nei tubi sottosella portavano messaggi alle brigate partigiane, rischiando la fucilazione ad ogni controllo, caso mai cantando il ritornello di “Bellezza in bicicletta” per vincere la paura.
E le tante fotografie dove il celeste della Bianchi di Fausto Coppi lotta fianco a fianco con l’oro della Legnano di Gino Bartali, ci parlano, con la musica e le parole di Paolo Conte, di un’epoca meravigliosa ma purtroppo ormai sempre più lontana.